martedì 24 dicembre 2013

Lontano dal fronte


Dopo che l'8a Armata britannica comandata dal generale Montgomery ha assicurato il controllo della città adriatica di Termoli lo scorso 6 ottobre, l'esercito canadese ha occupato ieri, 14 ottobre 1943, il capoluogo Campobasso, immediatamente ribattezzato da locali e militari Canada Town. Le truppe tedesche sono quindi arretrate lungo le tre linee ritardatrici preparate dal generale Kesselring: la linea Viktor, la linea Barbara e la linea Bernhard. Nei prossimi giorni l'esercito canadese riprenderà la sua marcia verso nord, incrociando la più a meridione delle tre linee, la Viktor, che permette ai tedeschi di controllare la valle del Biferno da ambo i versanti. La prossima postazione che gli Alleati dovranno conquistare è dunque quella di Oratino.

Un sole fuori stagione riscalda l'aria. La polvere è nebbia, la strada, il ciglio, l'erba, si confondono, i colori sfumano. Foglie gialle e rosse volano, la mano alza un grappolo d'uva: viola. Una macchia viva di viola. Una voce parla, mio padre si rivolge a mio zio, ma non riesco a sentire, sono troppo lontano, gli vado incontro, cammino ma non mi muovo. Il carro invece avanza, distinguo l'asino, e il viola è sempre più forte, distinguo i grappoli, acino per acino. Vedo anche il volto di mio padre, ma è solo un istante. Esplosione. Raglia, colpisce la polvere si tinge di viola. Sangue. Frantumi. Mio padre si avvicina, difforme, soffre, si regge le viscere nelle mani, viola, l'uva, mio zio, l'asino, una gamba, il volto di mio padre e ancora il viola. Mi sveglio.

Supplica
Mia madre mi guarda. Ha capito che ho fatto ancora una volta lo stesso incubo. Non dice niente e si volta. Mi alzo dalla branda senza fare rumore e senza parlare per non svegliare mia sorella. Mi vesto ed esco dalla stanza adiacente alla stalla in cui ci siamo sistemati nell'autunno del 1943, l'unico rimedio per non dormire direttamente con le bestie. Gesù sarà stato pure riscaldato dal loro alito, ma il letame puzza e a me basta doverlo spostare tutte le mattine. Mia madre prepara la colazione e divide il latte in due porzioni, per me e mia sorella: la tazza è piena quasi a metà, aggiunge una punta d'orzo e il bianco si sporca. Una crosta di pane.
Sello il cavallo che mi ha prestato Giovannino e parto. Devono essere quasi le sette di mattina, mi metto in cammino. Gli uffici aprono alle otto e devo essere il primo ad entrare. La strada è lunga, il cavallo non ce la fa, piano, s'è raccomandato Giovannino, piano piano. Ho tutto il tempo per ripensare al mio incubo e per ricostruire una volta in più tutti i dettagli di quella scena a cui non ho mai assistito. Mi chiedo se il sogno di questa notte è identico al primo che ho fatto, anni fa. Mi chiedo se riuscirò mai a capire la voce di mio padre.
Lo stesso viola, la stessa uva. La vendemmia è finita.
Da casa agli uffici di Campobasso sono circa 20 i chilometri da percorrere. Con il cavallo di Giovannino è meglio non avventurarsi per le scorciatoie scoscese. Grazie a Dio, me l'ha prestato, per andare a prendere la perizia e il responso. Dopodiché, pare che ci vogliano circa due mesi per ricevere i soldi e sarà già inverno. I lavori di ristrutturazione della casa non potranno cominciare prima della primavera prossima, 1950. Un altro inverno in mezzo alla paglia e al letame, mia sorella è più grande e lo sciroppo del medico Randalli è un buon antidoto contro la bronchite. Dovremmo resistere.
L'ingegnere Guacci mi viene incontro. Suona il clacson e alza il mento per salutarmi. La sua Fiat Giardiniera va veloce, dice che da casa sua alla centrale ci mette solo 20 minuti. Se l'è comprata l'anno scorso, nuova di zecca. Trenta milioni. Trenta milioni gli hanno dato all'ingegnere. La centrale idroelettrica ha subito ingentissimi danni, diceva il banditore. Trenta milioni, distribuiti a rate di 500 mila lire al mese, salvo la prima e l'ultima rata, di 1 milione di lire. Al bar ci sventolò davanti al naso la relazione della Direzione Generale Danni di Guerra. Poi si presentò con la Giardiniera, la prima macchina che molti di noi in paese vedevano.
Il cavallo di Giovannino è lento. Neanche un milione, neanche un milione mi basterebbe. Rimettere in piedi il primo piano, ricomprare i mobili, poterci andare a vivere. E poi comprare due animali, ché la vacca fa sempre meno latte, le galline e le pecore sono vecchie e poche. Cinque polli ci portò via il tedesco. E quando vennero i canadesi, siccome ci avevano liberato, si fecero preparare dei pranzi ricchi di carne, quella che a me mi serviva per un anno. Un maiale. Da prima della guerra non abbiamo un maiale. Serve un nuovo vitigno, devo finire di riassestare la terra, che ancora ha alcuni crateri e le schegge escono quando zappo, ripiantare degli ulivi e aspettare anni prima che diano frutti. Mamma, resisti fino all'olio nuovo.

Sopporta
L'usciere mi accoglie. Chiedo dell'ingegnere Sestito, capo della sezione V, “c'è, c'è, si sieda aspetti qui, poi la chiamo”. Sparisce. Aspetto circa mezz'ora, la gente passa, entra negli uffici, poi riesce, gira nell'altro corridoio. Dell'usciere nessuna traccia. Entro nell'ufficio più vicino, riconosco l'ingegnere, mi saluta e sorride.
Tutto pronto, è tutto pronto, mi dice. Comincia a cercare nelle scartoffie, tira fuori una cartella enorme, poi un fascicolo più piccolo, lo apre, sfoglia, si lecca le dita, sfoglia, “Tirabassi Eugenio fu Pasquale, giusto?”. Dico di sì, piano. Mi porge il foglio sorridente e dice “ecco qua”, lasciandomi il privilegio di scartare il pacco. Ci sono molte cose scritte. Individuo il mio nome e giro le pagine in cerca delle cifre. In fondo, leggo “TOTALE RISARCIMENTO 18.800”. Ingegnere, io ne avevo chiesti 700.740. Quanti soldi mi hanno dato? C'è scritto, dice, quella là è la somma. Qualcosa non va, chiedo spiegazioni. C'è tutto scritto, mi dice, legga il resto. Ho fatto la terza elementare ingegnè, se leggo io ci spicciamo domani mattina, che ci sta scritto qua?
Ho letto bene, mi dice. 18.800. Poi legge: “...la rifinitura è discreta mentre lo stato di manutenzione è cattivo. A seguito dell'occupazione il fabbricato subì danni alla muratura esterna, agli intonaci interni, ai pavimenti e a porzioni del tetto a due falde con tegole marsigliesi. All'atto del sopralluogo oltre ai predetti danni erano visibili anche quelli derivanti dallo stato di abbandono dell'immobile con le relative conseguenze dovute agli agenti atmosferici. La differenza in meno di lire 681.940 tra l'indennizzo richiesto ed il peritato è dovuta: alla quota d'uso non considerata nella parte”.
Che significa?
Che lo Stato risarcisce soltanto i danni di guerra. La sua casa è in cattive condizioni non solo per cause belliche, ma anche per cause manutentive non adeguatamente effettuate, mi segue? Quindi lo Stato non le paga sostanzialmente la manutenzione che è compito suo effettuare, ma soltanto il sinistro che tedeschi, canadesi e compagnia hanno arrecato alla sua proprietà, mi capisce?”.
Non capisco. Sto zitto. Poi protesto. Lui mi chiede se deve rileggere la relazione. Manutenzione. Penso. Ho capito bene. Poi urlo. Manutenzione. Quale manutenzione? Dormiamo nella stalla dal '43, ingegnè, so' sei anni, perché i cannoni hanno abbattuto il tetto e i muri del primo piano, manutenzione? Intonaci? Ingegnè, voi l'avete visto come stiamo, voi siete venuto, che manutenzione, ingegnè, che manutenzione?
Dice di stare tranquillo, non agitarmi, siamo in un ufficio pubblico. Non dipende da lui, lui è solo un impiegato d'ufficio, non dipendono da lui le perizie. È il geometra, il perito, poi c'è non so chi, che valuta, i valori. Provo ad arrabbiarmi ancora. Non c'è niente da fare. Con chi posso andare a parlare? Nessuno, la guerra è finita da cinque anni quasi, le pratiche vanno smaltite, quelle chiuse sono chiuse.
Non ho effettuato la manutenzione. Il cavallo di Giovannino è lento. Al ritorno ancora di più. La manutenzione. Chiedo al cavallo un altro sforzo, torno indietro, verso Sestito.

Pentiti
Quando il demonio ti tenta, tu non devi cedere così, devi resistere, Eugè, resistere di fronte alla tentazione del peccato. Lo vedi, che poi, a che ti è servito? Sono dovuto andare a parlare con l'ingegner Sestito e pregarlo di tacere la cosa, non spargere denuncia, niente. Cosa ci insegna il Signore? L'altra guancia... Eugenio, tu sei stato superbo, hai preteso di poter risolvere i tuoi problemi con la sola forza dei tuoi atti, dei tuoi gesti. Hai pensato solo a te stesso, solo alle tue difficoltà. Per fortuna l'ingegnere non s'è fatto male. Aggressione a un pubblico, a un, a un impiegato insomma. Ti mandavano in galera, se volevano, Eugè. Pure “buon lavoro” gli hai detto, uscendo, dopo che gli hai distrutto l'ufficio. E meno male che ci sto io, ché se no la galera non te la toglieva nessuno, Eugè. Ora ti assolverò anche dalle pene dell'inferno, ma tu devi pentirti sinceramente e profondamente Eugenio, contrito devi essere di fronte allo sguardo del Signore, che ti ha messo alla prova e che tu hai osato sfidarlo.

Padre, voi c'avete ragione, sono pure pentito e ho chiesto scusa all'ingegnere come voi mi avete detto, perché è una brava persona che fa soltanto il suo mestiere. Non mi sono controllato. Ma io che posso farci? Se voi vivete da sei anni in una stalla, con tutta la vostra famiglia, e poi vi dicono che i soldi non ce li dovete avere, ma voi che facevate?

Per ogni porta che si chiude il Signore ne apre un'altra. Tu volevi scegliere il cammino più facile, il Signore invece ti ha messo alla prova e adesso ti dà un'altra possibilità. Senti a me. Io sto facendo in questi giorni la richiesta per il risarcimento danni di guerra. È un poco tardi, ma ancora si possono presentare le domande. I danni non si vedono tanto, ma ce ne sono stati, e pure tanti. Però, proprio perché non si vedono tanto i danni, la relazione che ho proposto al Genio Civile... diciamo che ci stanno un po' di cose che invece stanno ancora qua, altre che sono veramente sparite, e così via. Quei canadesi sono protestanti e non appena hanno visto un poco d'oro qua dentro si sono messi tutto nelle tasche. E questa profanazione va risarcita, nel nome del Signore. Però servono un poco di testimoni. Qualcheduno già ci sta, mò se tu vuoi partecipare, io sempre ti posso dare poi una mano a rimettere qualcosa a posto, possiamo comprare un poco di materiale per la casa, e poi vediamo.

Quanto chiedete, padre Nicò?

Ma tu ci vieni a testimoniare?

Io ci vengo, ma voi quanto chiedete?

Un milione.

E a me quanto mi date?

Dieci mila?

Padre, ma io con dieci mila lire non ci compro neanche i mattoni!

Facciamo venti mila lire, Eugè. E poi, vi ho mai fatto mancare qualcosa? Lo sai che quando hai qualche problema, io qua ci sto sempre, e se non era per me adesso stavi in carcere e tua madre e tua sorella in mezzo al freddo le avevi lasciate, per chissà quanto tempo.

Non dire falsa testimonianza
Dopo l'assoluzione, padre Nicola portò Eugenio in sagrestia. Gli porse la richiesta di risarcimento danni. Disse: “Firma qua”. Eugenio chiese di leggerla prima di firmare, ma il sacerdote insistette, “firma, mò te la leggo!”.

Il sottoscritto sacerdote Nicola Iafelice di Felice residente in Oratino Via Regina Mergherita nella qualità di parroco in Oratino chiede di essere indennizzato della somma di L. 922.500 quale ammontare degli oggetti asportati, depredati o distrutti ad opera delle truppe canadesi.
Poi ci sta tutta la descrizione degli oggetti e poi la dichiarazione dei testimoni: Noi sottoscritti testimoni, maggiorenni muniti degli altri requisiti di legge e non interessati alla domanda; tenuta importanza della prova testimoniale che con il presente atto rendiamo, nonché con il vincolo religioso che in tal guisa contraiamo davanti a Dio sull'obbligo di dire la verità; tenute presenti altresì le pene severe che la legge commina ai testimoni falsi o reticenti; sotto il vincolo del giuramento che noi prestiamo innanzi a Dio di dire la verità e null'altro che la verità: affermiamo essere vero notorio e a nostra personale conoscenza che tutto quanto è contenuto dichiarato nella domanda medesima ed allegato elenco, risponde in ogni sua parte a verità. Firme dei testimoni, Oratino lì 4 novembre 1949. Poi, se vengono a chiedervi qualcosa a voi testimoni, gli dite che tutto quello che c'è scritto sulla dichiarazione è vero, che non potete ricordarvi tutta la dichiarazione per filo e per segno, ma che mancavano armadio, statue, urne in ottone e in argento, organo, ostensorio in argento, labaro, tunicelle, panche, piviale, vesti della madonna, eccetera eccetera. Mò, domenica, dopo la messa della sera, tu vieni e ci aiuti a spostare le cose che stanno ancora qua, così le mettiamo nella cripta. Lunedì o martedì viene il controllo, una formalità, ma non ci deve stare niente.

Guadagnati il paradiso
L'ispettore non si degnò nemmeno di andare a trovare Eugenio. Parlò solo con padre Nicola. Gli era puzzata, a quelli del Genio Civile, questa storia di un risarcimento tardivo, troppo tardivo e con una somma così ingente; il primo controllo non gli era bastato e un accertamento ulteriore si rese necessario.
Padre Nicola assolse Eugenio dai suoi peccati e anche dalle sue colpe sociali e civili: gli presentò una seconda testimonianza già concordata con l'ispettore, firmata e approvata. Mancava solo la firma di Eugenio, che attraverso quel verbale proferiva parola, parola che il prete e l'ispettore avevano sapientemente stilato per lui. Che faccia avrà questo ispettore? Quanto gli darà padre Nicola? Ventimila? Di più, un ispettore vale più di un contadino.
Eugenio reiterava l'elenco dei furti e dei malfatti perpetrati dai soldati. Rinforzava la tesi del padre e anche quella dell'ispettore. “Eugenio, con questa pratica risolviamo tutti quanti i tuoi problemi. C'è stata quest'altra formalità, ma andrà tutto bene. Vedrai che quest'estate al più tardi prendiamo i soldi”.

Credi
Padre Nicò, i soldi del mio rimborso sono già finiti. Ho pigliato i soldi a maggio, ho fatto due mesi di lavoro e sto come prima. Se non copro il primo piano subito, ci viene a piovere dentro e stiamo punto e a capo. Intanto la terra va lavorata, ché sennò non dà niente. Sono venuto a chiedervi i soldi del risarcimento della chiesa, padre Nicò.

Figlio mio, tu vuoi i soldi del risarcimento prima che me li hanno dati?! Qua in paese facciamo la fame tutti quanti e tu vuoi venti mila lire così, tutti di un colpo?

Un anticipo...

Ma io non ce li ho figlio mio. Già i funerali a tua madre li abbiamo fatti così. Lo sai i tuoi compaesani quanto danno alla parrocchia per i funerali di un caro?! A te non ti ho chiesto niente. Mò, abbi pazienza, ché quando arrivano i soldi te li porto io.

Ama il prossimo tuo
Chicken, chicken, meats and milk.
Era freddo e grigio. Diametro, mi pareva un centimetro. Parlava americano e io non capivo. Altri cinque soldati giravano intorno, il ferro premeva sulla guancia, era freddo. Mia madre affianco, mia sorella nella stalla strillava. C'era un soldato in meno e il ferro premeva sulla guancia. Mia madre piangeva, io mi sono pisciato addosso. Chicken. Mi hanno detto che significa pollo in americano. E infatti presero i polli e se li fecero ammazzare da mia madre. Kill. I giorni successivi, hanno voluto il vitello e ogni sera mia sorella. La casa era calda e la legna già scarsa, troppo scarsa per il mese di ottobre. Poi sono venuti a cercarli e sono ripartiti per fare la guerra. Intanto mia sorella aveva voglia di ammazzarsi e ha resistito solamente per l'affetto di mia madre. Tutti dovevamo adesso resistere, resistere ancora per non crepare sotto le bombe, sotto il freddo, sotto la fame.

Sospetta
Secondo Giovannino, padre Nicola ha ricevuto i soldi. E noi testimoni non ne sappiamo nulla. Non ci ha chiamato. Giovannino dice pure che ne è sicuro, che ha visto la posta di padre Nicola e che c'era la lettera del Genio e che qualche giorno dopo padre Nicola è andato all'ufficio postale per ritirare i soldi. E non ci ha pagato. Secondo Giovannino non è giusto. Non è giusto. Io non resisto più, sta arrivando l'inverno, mia sorella è muta e malata. La casa sta diventando una tomba scoperchiata.

Espia
Il giudice Galli si era guadagnato subito la fama che meritava. Quella del castigatore. E infatti andò a trovare Eugenio, lui. Si presentò con un pastrano beige, dei pantaloni stirati con la piega. Una persona a modo, che si tolse il borsalino entrando in casa. Eugenio lo imitò e si tolse la sua coppola, per rispetto. Quindi il giudice gli spiegò che la pratica di padre Nicola era stata riaperta a risarcimento avvenuto. In effetti, il giudice l'aveva fatta scivolare nei suoi fascicoli, diffidando del lavoro del Genio. “Lei capirà, signor Tirabassi, dopo la fine della guerra ci sono stati numerosi tentativi di truffa da parte di chi presentava delle richieste di risarcimento. Nella sua regione, il Molise, si sono registrate delle anomalie e sembra che le richieste complessive dei molisani abbiano oltrepassato il patrimonio presente in regione...” Il giudice mosse leggermente la sua bocca e accennò quello che poteva sembrare un sorriso. Ma non lo era. Il giudice amava semplicemente fare delle pause durante i suoi discorsi e interrogatori, un modo come un altro di mettere sotto pressione l'interlocutore debole, impressionato da una persona così distaccata e cinica, che può condannare con il tono della noia quotidiana, della routine morbosa. “Insomma, al governo qualcuno ha storto il naso di fronte a questa esagerazione. Deve sapere che a chi legifera nei palazzi romani sta bene che si rubi, purché si rubi con decenza e nel rispetto di certi limiti. Il mio ruolo è proprio questo: ristabilire il limite. Rivalutare le pratiche ormai chiuse e pagate... Ha un bicchiere di latte?” Eugenio si alzò, chiamò la sorella, il giudice la guardò e ricevette il bicchiere sfiorandole le mani. “Dopo questo preambolo, lei avrà forse capito qual è il motivo della mia visita. La pratica per il risarcimento danni alla parrocchia, in cui lei si è costituito testimone, fa parte di quelle controllate da me e dai miei uomini. Il parroco, padre Nicola, ha chiesto quasi un milione di lire cinque anni dopo la fine della guerra. È evidente che una tale incongruità ha attirato la mia attenzione. È stato un po' ingenuo, da parte di questo parroco, poter pensare che la sua richiesta passasse inosservata. E mettiamoci anche che gli organi dello Stato sono stati particolarmente clementi nei confronti di quelli ecclesiastici e che i vescovi ci hanno già interpellato affinché non si facciano scandali, ma... capisce?”
Padre Nicola non è un ladro, signor Giudice.”
Sono d'accordo. La guerra è stata dura. E per questo abbiamo tutti diritto a un'esistenza e un futuro migliore. È questo il senso della democrazia. Lei stesso ha usufruito degli aiuti dello stato per ricostruire la sua casa, i cui lavori mi sembrano bene avanzati d'altronde e me ne complimento con lei. Ma, vede, il principio della democrazia è anche che ognuno abbia un po' e che non ci siano alcuni che abbiano troppo. Ecco, padre Nicola vuole troppo, troppo, al di là del limite della decenza...” Il giudice guardò Eugenio negli occhi per persuaderlo e, insieme, imporre la sua impavida autorità. “Una buona parte degli oggetti che le truppe alleate avrebbero portato via dalla chiesa non sono mai esistiti e infatti non figurano negli inventari della parrocchia, che pure sono dettagliati. Oggetti, peraltro, di cui difficilmente un fedele potrebbe testimoniare l'esistenza. Lei ha mai realmente constatato, prima della guerra, l'esistenza di un calice d'oro chiuso nell'armadio della sagrestia? E del piviale? Lei sa cos'è un piviale, signor Tirabassi?” Silenzio, come un allievo di fronte al maestro. “Mi scusi, non voglio metterla in difficoltà... Lei conosce i comandamenti? Ce n'è uno, mi sembra, che recita “Non dire falsa testimonianza”. È l'ottavo, credo. Ecco, la invito ad estendere questo comandamento anche alle dichiarazioni ufficiali, in cui la falsa testimonianza è un peccato, nella stessa maniera. Solo che invece di “peccato” noi giudici amiamo usare la parola “reato”. E le pene non le infligge Dio per l'oltretomba, ma noi giudici per questa vita. Le assicuro che le pene inflitte da noi giudici non hanno niente da invidiare in efficacità a quelle divine, signor Tirabassi.” E prima dei saluti: “Quanto vale la sua parola? Quanto è costata la sua testimonianza?”
Niente.”
Spero almeno che non sia vero. Comunque noi abbiamo deciso di riprenderci i soldi che il suo parroco ha rubato. Ora, lei può scegliere: o ci aiuta, confessando di essere stato corrotto, e in tal caso io la lascio in santa pace senza mettere le mani sui soldi che il prete le ha dato; oppure resiste alla nostra azione, continua a mentire per difendere il parroco, e in tal caso la porto in tribunale per aver dichiarato il falso e ci riprendiamo anche i soldi.
“Ma io quei soldi non ce li ho.”

Resisti
I passi di un cane, l'odore del fumo dei camini, la luce tenue dei lampioni. Le scarpe scivolano sulla pietra umida, bagnata, annebbiata la mente pensa a quello che c'è da fare, stasera, in questo paese bianco, bianco immacolato, bianco bagnato cerco angoli d'ombra, nessuno per strada, solo sento freddo, umido e il rumore dei passi di cane, il cane della panettiera, sta per girare l'angolo, scivola la pietra bagnata, ecco Giovannino, ha la sciarpa di sempre, un cappotto, gli occhi cattivi, vedo la mia rabbia nella sua, pure lui vuole i soldi, pure lui ha testimoniato, pure lui ha la faccia scavata, la nebbia ci separa. Michele Fatica sta schiattando, a domani non ci arriva e padre Nicola è andato a casa sua per l'estrema unzione. Andiamo, quello che dobbiamo fare. Il vicolo è stretto e l'odore dei camini s'incanala, l'umido attreversa i cappotti. Ho la testa bassa, i passi corti e veloci si dirigono verso la casa parrocchiale. Giovannino apre il cappotto, prende il piede di porco, sfonda il portone, poi richiude. Siamo dentro. La luce della notte illumina appena l'ingresso, poi le scale e il piano superiore. Non ci ero mai venuto, in casa di padre Nicola. Il confessionale, le navate, la cripta. Mai la casa. Sono deluso dall'odore di questa casa: né d'incenso, né di cera, né di fiori, né di ostia. Odore di una casa, triste, unicamente una casa. Giovannino è deciso, ha fretta, le sue mani spostano i mobili scoprono angoli della stanza da letto del prete e il letto. Sotto il letto, guarda sotto il letto mi ordina Giovannino e io guardo nel comodino: sopra: una Bibbia, sotto, dietro un Vangelo: un foglio illustrato con una donna sopra, un vestito stringe i seni, le braccia nude alzate sopra la testa, sorride e mi guarda bionda, dice “Rita Hayworth in Gilda”, Giovannino guarda la donna ride e si eccita padre Nicola guardando questo foglio, si masturba. “Sbrigati,” dice Giovannino. Sbrigati. Ancora non troviamo i soldi. Strappa il foglio e il corpo della donna è in mille pezzi, non ha più niente di erotico, è solo carta. Tutto è sottosopra, poi un rumore e ancora nessuna traccia dei soldi. Apre la porta, poi niente, si ferma e riparte piano, accende una luce all'ingresso, aspetta e grida “chi c'è?”, ci guardiamo, entra, ha afferrato qualcosa, sale le scale e ci guardiamo io e Giovannino va verso la finestra sale sul davanzale si guarda intorno cerca un appiglio poi scivola via nella nebbia e non lo vedo più a Giovannino, sono solo, padre Nicola entra in stanza, tutto è per terra, mi vede, si stupisce, forse, “che fai? che cerchi?” mi guarda, lo guardo, ho vergogna, ha un bastone in mano, quello che devo fare, comincia a picchiarmi, il piede di porco, lo prendo, rapido, le tempie, il cranio produce un rumore deciso quando si frantuma. Sangue schizza rosso, viola, colpisco ancora, più volte, sento una voce, la sua che rantola e non dice nulla, soffre questo prete che sto provando piacere ad ammazzare. Il pavimento è sporco e appiccicoso di mosto violaceo, come nel mio incubo, come il sangue di chi non ha resistito all'urto di questa guerra che state conducendo contro di noi, contro la povera gente come noi, un mosto violaceo che ha un gusto dolce, più dolce dei miei incubi, la dolcezza che sto gustando nell'ammazzare questo ricco prete, padrone della mia anima. Muori. Cerco i soldi su di lui, nelle mutande il mazzo di banconote odorano del suo pene e vado via, il viso di Rita Hayworth è straziato, strappato, difforme. Vado verso la finestra, seguo il percorso di Giovannino. Verso casa.

Racconto (molto) liberamente immaginato a partire dal libro Oratino nella Seconda Guerra mondiale di Roberto Colella.

domenica 17 novembre 2013

Appunti messicani: El Zócalo , i murales e lo spazio pubblico (parte seconda)


Come dicevo nel post precedente, l'impressione che ho avuto durante il mio viaggio in Messico è di uno spazio pubblico abitato da una società civile vivace; più o meno il contrario di quello che accade in Europa, dove degli spazi pubblici sempre più ristretti sono disertati da una società sempre più atomizzata. Ora voglio concentrarmi su uno degli aspetti di questa forte “pubblicità” (la parola qui è usata nel suo senso inabituale): la pittura murale.
I murales
Già, perché una delle cose che colpisce di più del Messico (e, credo, dell'America latina in generale) è la forte presenza di pitture murali, elemento che caratterizza il paesaggio urbano come quello rurale. Infatti, in Messico la pittura murale è uno dei mezzi di comunicazione più comuni. È forse più frequente trovare insegne di negozi o studi medici sotto forma di murales che “insegne” come le intendiamo noi, cioè pannelli o cartelloni con scritte sopra. Eccone qualcuna che ho fotografato:


Ma i murales servono anche ad altro, per esempio ad annunciare un concerto:

Oppure a fare della pubblicità (nel senso abituale):

Per decorare la parete di una libreria:


O, ancora, per fare campagna elettorale e comunicazione politica:

 

O, addirittura, minacce:


E ne ho visto addirittura uno di murales, in un piccolo paesino, che fungeva da “pubblicità progresso” per sensibilizzare le donne su alcune questioni della gravidanza. Ma era l'alba, eravamo stanchi e ho dimenticato di fotografarlo. Désolé.
Chiunque passi qualche giorno in Messico sarà confrontato numerosissime volte a questo tipo di murales. Potrà anche notare, in filigrana, dietro la pittura, i vecchi strati di colore, i vecchi annunci, ricoperti e sostituiti dai nuovi. Insomma, il murales è uno dei mezzi di comunicazione principali.
La cosa mi ha molto colpito, perché mette in questione la proprietà del muro. Un murales non è come un pannello pubblicitario installato con strutture in ferro e bulloni. Un murales è pittura stesa direttamente sulla calce. Penetra nel muro. Il muro, che serve a delimitare uno spazio privato dal resto del mondo, assume così un'altra funzione, che è quella di rendere pubbliche alcune informazioni. Il muro, strumento principale di separazione, si carica in realtà di un aspetto pubblico.
In realtà, la cosa non sarebbe molto interessante di per sé. Anzi, il mio discorso corre il rischio (molto etnocentrico) di idealizzare (a sinistra) una pratica culturale del, come si diceva una volta, “Terzo Mondo”. Del tipo: “Guardate, in Messico i muri sono di tutti!” Cazzate. Anche perché, come l'abbiamo visto, i fratelli Cola non hanno molte difficoltà ad appropriarsi di questa pratica per fare altro (nella fattispecie: del capitalismo!).
L'arte dei muralistas
In realtà, questo discorso sull'uso comune dei murales rivela tutto il suo interesse nel momento in cui lo si mette in relazione con un pezzo di arte messicana, dove si ritrova la pratica della pittura murale strettamente connessa allo spazio pubblico. Si tratta dei numerosi pittori e pittrici di murales che la storia dell'arte messicana ha conosciuto.
Sia chiaro: questo post non sta per diventare una dissertazione sull'arte visiva messicana. (Ne sarei incapace, visto che fino al mio arrivo in Messico non conoscevo altro che i nomi di Diego Rivera e Frida Kahlo e nessuno dei loro dipinti; ah, in quanto segue non parlerò neanche di Frida Kahlo). Piuttosto, vorrei mettere in evidenza, a partire da quanto ho visto io con i miei occhi a Città del Messico, due dimensioni di questa pittura: il carattere politico-rivoluzionario; e il carattere politico-istituzionale. [Ed ecco che, senza volerlo, faccio il verso al partito al potere in Messico: il Partito Rivoluzionario Istituzionale.] Insomma, piuttosto che di arte in senso stretto, qui proverò a fare una riflessione (di sinistra) sull'arte e la politica, due campi che sono in verità intrinsecamente legati.
Arte politico-rivoluzionaria
A Città del Messico ho visto alcuni dei murales dei cosiddetti tres grandes, i tre grandi muralisti del Novecento: Diego Rivera (1886-1957), David Alfaro Siqueiros (1896-1974) e José Clemente Orozco (1883-1949). Rivera, Orozco e Siqueiros, molto differenti l'uno dall'altro, sono i tre pittori della Nazione messicana post-rivoluzionaria. E sono pittori comunisti: non solo per il tema politico della loro opera, per lo stile moderno e espressionista della loro pittura. Ma soprattutto per il loro supporto: il muro. Questa è una pittura che parla al popolo e che chiama all'azione. La critica e la rivoluzione.
Basti guardare questo quadro di Rivera:
Diego Rivera, El hombre en el cruce de caminos o El hombre controlador del universo, 1934, potete trovarlo nel Palacio de Bellas Artes di Città del Messico.

L'uomo si trova al centro dell'universo, in una visione estremamente progressista, e da questa posizione deve scegliere quale strada seguire verso il progresso. Da una parte, c'è il capitalismo, con le sue guerre e la sua società borghese ben composta mentre la polizia (sullo sfondo) reprime le lotte sociali; dall'altra, c'è il comunismo (e Lenin), che rappresenta il proletariato e la via all'emancipazione dell'umanità. Cosa scegliamo? [Anacronismi... o no?]
Pensare che questo murale l'aveva commissionato Rockefeller per la sede della sua impresa, ma dopo averlo visto lo distrusse. Il pittore ne realizzò un altro, che è quello che si trova al terzo piano del Palacio de Bellas Artes di Città del Messico. A parte la provocazione al cuore del capitalismo mondiale, è interessante il carattere manifestamente politico del dipinto che è trasmesso senza nessuna mediazione allo spettatore.
Meno diretto, più espressionista, ma non meno politico è Siqueiros. Nel trittico Nueva democracia (1944-45), si celebra la sconfitta del fascismo e si inneggia alla libertà. Degli uomini sconfitti e avviliti simboleggiano le vittime della guerra e dei totalitarismi; mentre la forza della donna che esce da un vulcano impugnando la fiaccola della libertà è estremamente potente e vivificatrice, è portatrice di azione e inneggia alla lotta. Per non parlare delle sue tette (un'eredità del cubismo?):

Siqueiros, Nueva democracia, trittico composto da: Victimas de la guerra (in alto a sinistra), Victima del fascismo (in alto a destra), México por la Democracia y la Independencia (in basso), 1944-45, anche questo al Palacio de Bellas Artes.

Ancora, un altro murale fortemente critico è quello di Orozco, intitolato Katharsis (uno dei miei preferiti). Eccolo qui:

Orozco, Katharsis, 1934-35, al Palacio de Bellas Artes.

Armi, coltelli, fucili, tecnologia, delle prostitute (ridenti?), una testa sofferente, visi straziati dal trattamento espressionista, colori violenti, osati, uno sfondo di fiamme: una visione distopica di un mondo in disintegrazione, in cui la tecnologia sta violentando un uomo che annega nella massificazione sociale. Non ti turba?
Ed ecco l'idea orozchiana di elemosina:
Orozco, El alcancìa, uno dei murales del Colegio di San Ildefonso. Moltissimi sono i murales di Orozco sulle pareti dell'antico collegio, tutti politici.

Lontana dall'essere un reperto storico o museale, la pittura murale è tuttora il luogo di una critica sociale e politica. Lo testimonia questo murale, che si trova dietro l'Universidad de Sor Juana e che è statorealizzato non so da chi:

Un'arte politico-istituzionale
Ma quando si dice politica, si dice soprattutto costruzione politica, sociale, culturale e istituzionale. Il Messico post-rivoluzionario è un importante momento di (ri-)costruzione di un'identità nazionale. L'imperativo è rifiutare il modello dittatoriale francofilo (accentratore ed omologatore) imposto da Porfirio Diaz, quindi dare voce al popolo e, in particolare, alle differenti componenti del popolo, tra cui quelle più dominate, come gli indios. Serve una grande pittura, pubblica, che parli a tutti, che sia capace di riscostruire un sentimento d'appartenenza nazionale. Ed è per questo che la pittura de los tres grandes non è unicamente politico-rivoluzionaria, ma anche politico-istituzionale. È un'arte del popolo, ma il popolo (nell'ideale nazionale moderno, che non riguarda solo quello che chiamiamo “Occidente”) si identifica nello Stato-Nazione. Nel Novecento, in Messico, l'arte è il fulcro della costituzione identitaria di questo Stato-Nazione post-rivoluzionario.
I legami tra i tre pittori e le istituzioni non sono infatti deboli. I tre hanno ricevuto delle commissioni dallo Stato, ciò che da una parte gli ha permesso di sviluppare con ampi mezzi la loro tecnica, obbligandoli tuttavia a dialogare con un'altra dimensione della politica, del “pubblico”: non quella popolare, critico-rivoluzionaria, ma quella del potere statale. Qual è il confine tra le due?
La pratica artistica di Rivera è forse quella che più mette in evidenza questa contraddizione. È lui che ha dipinto i muri del Palacio Nacional rappresentandovi la storia del Messico, dall'epoca pre-colombiana ad oggi. Purtroppo non ho potuto vedere questi murales: il palazzo era chiuso come misura preventiva visti gli scioperi... Ma ecco comunque una foto di un pezzettino di questi, a quanto pare, enormi e magnifici murales:

Probabilmente Rivera, tra i tre, è quello che di più ha riflettuto a questo sentimento di appartenenza nazionale.
Letta in controluce e in comparazione con quello che succede da ormai oltre un secolo in questa nostra vecchia Europa, l'esperienza dei tra muralisti ci dice molto. Prima di tutto, ci ricorda che l'arte ha il dovere di parlare al popolo, dovere che troppo spesso gli artisti qui dimenticano, intrappolati nella loro arte autorefernziale, autoriflessiva sulla propria artisticità, sul proprio sogno di arte in sé, più o meno confessato. Intrappolati nella loro artecrazia.
L'arte deve essere pubblica, popolare, ci dicono los tres grandes.
Al tempo stesso, il legame tra i muralisti e la committenza statale finalizzata alla costruzione di un sentimento nazionale mette in luce i limiti potenziali dello “spazio pubblico”, quando questo diventa uno strumento del potere.
Infatti, lo “spazio pubblico”, che è stato il vero oggetto di questi appunti messicani, ha diverse coniugazioni. Il pubblico come partecipativo e popolare, ma anche il pubblico come emanazione di istituzioni rappresentative. Lo spazio pubblico tra democrazia e potere.
In Europa stiamo vivendo un momento in cui entrambe le declinazioni del pubblico, della politica (quella partecipative e quella istituzionale) sono in profonda crisi. Il loro peso nella società e nelle scelte che strutturano il continente è nullo. Da oltre trent'anni, il paradigma neoliberista per cui la società non esiste impera e ottiene i suoi frutti: la distruzione della società civile per far crollare la democrazia, la partecipazione del popolo al governo degli Stati.
Lo spazio pubblico, la società civile, la democrazia
Lo spazio pubblico messicano è vivo, molto più vivo di quello europeo e un'esperienza così forte come quella dei muralisti ne è la testimonianza. Eppure, la democrazia messicana, secondo i nostri canoni, ha l'aria di non funzionare molto bene: il PRI è eletto da oltre ottant'anni, a parte una breve (e recente) parentesi.
Nonostante le elezioni, senza alternanza non c'è democrazia. Eppure, la società civile messicana è viva e, chissà, forse riesce ad influenzare le decisioni governative molto più di quanto non lo faccia quella europea, il cui ruolo politico è ormai ridotto alla delega del potere ad una classe dirigente scollata dalla realtà, delinquente e sfruttatrice.
Lo spazio pubblico messicano ci mostra due cose: più superficialmente, in controluce, che la società civile europea è smorta; e poi che, più profondamente, la categoria europea di “democrazia” è da rimettere in discussione: questa, quando si limita alla sua natura (pseudo-)rappresentativa, non è l'espressione delle istanze di una società civile che partecipa concretamente al potere; può darsi che un governo non democratico dipenda dalla volontà popolare molto più direttamente di quanto non lo faccia un governo democratico, soprattutto in questa fase moribonda e degenerata della democrazia europea. Ecco qual è l'insegnamento che il Messico mi ha dato: che non c'è democrazia senza società civile.
E qui, in realtà, il Messico c'entra ben poco. Perché non è tanto del Messico che si è parlato in questi due post di appunti messicani, quanto dell'Europa.

PS: Non avrei mai potuto scrivere questo post senza le chiacchierate con tutte le persone che ho incontrato durante il mio viaggio in Messico. In particolare, grazie a: Amael (e la sua famiglia), Alvaro, Cristina, Delphine, Martin, Michael, Roberta, Tanquy.

domenica 10 novembre 2013

Appunti messicani: El Zócalo , i murales e lo spazio pubblico (parte prima)


Oltre un anno fa visitavo la città di Arezzo e rimasi stupito dal numero di piazze e piazzette presenti in città. Mi dissi anche che lo sviluppo delle città toscane durante il Basso Medioevo doveva essere legato in qualche modo a questo spazio, la piazza, che permetteva alle persone di realizzare delle attività sociali (dal lavoro al loisir) insieme, in comunità.
Ultimamente sono stato in Messico e il tema della piazza come spazio pubblico mi ha interrogato di nuovo, sin dal primo giorno trascorso nella capitale, il DF, come la chiamano i messicani. Il cuore politico e culturale della città e della repubblica messicana si trova nel Zócalo, la terza piazza più grande del mondo, circondata dal Palacio del Gobierno, dal Palacio Nacional e dalla Catedral. Questo spazio è intimamente legato all'identità del paese. El Zócalo è il simbolo del Messico e del popolo messicano e – la cosa più interessante – in quanto tale appartiene al popolo, alla gente. Certo, sui lati ci sono le istituzioni, temporali e spirituali, ma la piazza appartiene al popolo.
La piazza come oggetto di lotta
Ed è per questo carattere simbolico che El Zócalo si trova oggi al centro di conflitti e contese. Infatti, i messicani si stanno mobilitando fortemente in questo periodo. Il partito al potere (Partito Rivoluzionario Istituzionale – PRI; pardon per l'ossimoro) sta infatti varando alcune importanti riforme come quella sulla liberalizzazione delle fonti energetiche (il petrolio dovrebbe passare dalle mani dello Stato a quelle dei privati, da quanto ho capito) o come quella del sistema educativo (che anche si ispira alle più recenti riforme europee di spirito neoliberista). Ma i messicani non ci stanno e los maestros in particolare hanno deciso di protestare e mettersi in sciopero da ben tre mesi (italiano medio, rileggi bene quest'ultima frase: tre mesi, non tre ore). E ovviamente il centro dalla protesta era El Zócalo, occupato. La cosa ha piccato il governo che non si è fatto troppi problemi ad usare le maniere forti. Botte, botte, botte. Di quelle che fanno male. Dandogliele e dandogliele hanno cacciato i maestri dalla piazza (parliamo dei mesi di settembre-ottobre).
Intanto degli uragani stavano per portare la catastrofe sulle coste messicane, ma il governo, intento a reprimere e reprimere, si è – come dire – distratto, sottovalutando i rischi e dimenticando di mettere in atto delle strategie di prevenzione dei danni, che sono stati enormi. Vista la catastrofe, un grande movimento di solidarietà ha attraversato la nazione e il governo ne ha approfittato con una nuova idea: El Zócalo sarà il centro di questa solidarietà e la base per la raccolta di indumenti, viveri eccetera per le popolaizoni colpite dal cataclisma. Per los maestros, evidentemente, non c'è più posto.
Il governo ha riconquistato così la piazza, momentaneamente. Infatti, nel Zócalo era previsto anche un altro evento, la Feria del Libro. Per paura di mollare l'osso, il PRI ha deciso di annullare la Feria per lasciar spazio alla raccolta. Mica male l'idea, che vorrebbe mettere in scacco los maestreos: voler riconquistare El Zócalo avrebbe significato contrastare l'opera di beneficienza messa in atto dal governo.
La voce degli scrittori messicani, come quella di Paco Ignacio Taibo II, si è alzata per dirgliene quattro a quelli lì del governo, obbligandoli a spostare il centro di raccolta in un altro degli immensi spazio della capitale e riconquistando la piazza (degli scrittori che obbligano il governo a ritirare una decisione, che roba!).
Il risultato è che l'inizio della Feria è più o meno coinciso con il mio (nostro, non ero solo) arrivo in Messico. L'atmosfera di una domenica pomeriggio era positiva: tantissima gente, di tutte le età e classi sociali, si aggirava tra i numerosissimi stand di varie case editrici. In più, diversi forum erano organizzati. I dibattiti erano avvincenti. Niente a che vedere con i melensi, noiosi e autoreferenziali festival del libro europei. Già, perché lo scopo principale (e condiviso) di quei dibattiti era di esprimere solidarietà a los maestros e specificare bene che la feria non stava sottraendo loro uno spazio, ma lo aveva riconquistato, per restituirglielo. Così, la moderatrice del dibattito a cui ho assistito accusava, con tanto di indice puntato contro l'adiacente Palacio nacional, il governo dei suoi misfatti: politiche liberali, corruzione, controllo dei media, tutte tematiche che potrebbero trasferirsi (con tutte le differenze del caso) dall'altra parte dell'Atlantico.
Una società civile messicana
Ma quello che voglio mettere in evidenza è piuttosto l'atteggiamento con cui questi problemi venivano trattati; una chiarezza e una forte criticità contraddistinguevano il dibattito. E non solo da parte degli intellettuali (la parola è mia e serve a riassumere i vari casi di figura presenti al dibattito, principalmente scrittori e giornalisti) che intervenivano, ma anche e soprattutto da parte del pubblico, cioè della gente, che non era lì nella posizione di qualcuno che ascolta per imparare cose, per aspettare la parola riveltrice, di un Travaglio o di un Grillo, ad esempio. La gente era la sede stessa della critica e ritmava gli interventi con commenti, grida, applausi, ironie. Un pubblico numeroso e che reagiva, attivo e attento soprattutto al dibattito sulla strategie di uscita: che fare? Come creare un'informazione libera? Quali mezzi (Internet, una nuova televisione popolare)? Come ribaltiamo il potere in questo paese? Cose concrete insomma, non pugnette.
Cose pubbliche. Al punto che uno degli intellettuali ha dato vita ad un intervento direttamente in interazione con il pubblico, parlando di una starlette della televesione messicana (Laura Bozzo) che, oltre ad avere problemi giudiziari con il suo paese di origine (non so più se il Cile o il Perù), ha approfittato degli uragani per girare alcune immagini sensazionalistiche di lei in elicottero mostrando la catastrofe ai telespettatori. Ebbene, di quella presa in giro, di quella critica, di quell'ironia l'intellettuale non era il solo autore. Era nell'interazione, nello scambio di battute tra il pubblico e l'intellettuale che la critica prendeva forma: un momento in cui una comunità proponeva un riferimento comune e ne dibatteva, divertendosi, per apportare una critica più ampia (ai media specialmente).
È lì, in questa interazione a partire da riferimenti comuni, che ho avuto l'impressione dell'esistenza di una società civile messicana, che ha dei valori comuni di referimento, delle conoscenze di riferimento, e che in base a questi valori comuni realizza un dibattito sull'attualità (e non solo) che ha un senso. Senso che, invece, mi sembra mancare profondamente nel dibattito pubblico europeo, quando questo senso comune non si limiti all'indignazione e, d'altra parte, fatti salvi alcuni piccoli circoli generalmente ritenuti minoritari o estremistici. Esiste, in Europa e in Italia in particolare, una società civile? Saremmo pronti a fare un dibattito pubblico, sotto un tendone enorme, a piazza Colonna o Venezia, per esempio, criticando a voce alta i vari Vespa, De Filippi, Costanzo, Floris... Oppure ce li avremmo proprio sul palco?
La Lucha libre
Cambiamo argomento, pur restando su questa problematica del pubblico come sede di un'azione sociale. Passiamo però allo spettacolo. Uno degli sport/spettcaoli più seguiti dai messicani è la lucha libre, la lotta libera, una sorta di wrestling messicano. Sul ring, due squadre si affrontano. Da una parte i rudos, che non rispettano le regole del gioco e la cui brutalità non ha altro scopo che distruggere l'avversario e vincere. Dall'altro, i tecnicos, molto più corretti e onesti. Sui gradoni dell'arena, famiglie e bambini tifano tendenzialmente per questi ultimi, mentre impiegati sottomessi a una gerarchia durante la settimana tiferanno più volentieri per i primi. Le due squadre incarnano così due principi basilari della vita sociale: rispetto delle regole e del vivere insieme contro volontà di sopraffazione. I tecnicos, per fortuna, vincono più spesso. Ma in fondo tutti sanno che si tratta soltanto di una finzione e che le due squadre non si picchiano realmente: è uno spettacolo. E il vero protagonista dell spettacolo non sono i luchadores, ma il pubblico, che interagisce con loro, gli parla, li incita, tifa. E, soprattutto, lo show, il fatto che la lotta sia una finzione, permette al pubblico, alla società, di riconciliarsi, di riconoscersi in ambedue i principi, di mentenersi in equilibrio tra rispetto della vita sociale e egoismo. È, per così dire, una sorta di catarsi. È un'altra prova dell'esistenza di una società civile, di una dimensione pubblica forte nel popolo messicano, dimensione che continuerò a sviluppare nel post successivo, dedicato ai murales.
Un assaggino:
David Alfaro Siqueiros, México por la Democracia y la indipendencia, parte del pannello centrale del trittico Nueva Democracia, 1944-45, al Palacio de Bellas Artes di ittà del Messico. La libertà emerge da un vulcano e spezza le catene.

Per leggere la seconda parte, clicca qui.

martedì 6 agosto 2013

La molteplice discriminazione: il razzismo, la Kyenge e il resto della società



Il caso delle aggressioni nei confronti della ministra Cécile Kyenge ha recentemente rivelato come il razzismo sia, in Italia, socialmente accettato, condiviso e promosso. Tuttavia, c'è secondo me un errore di analisi del fenomeno. L'errore è di considerare il razzismo come un fenomeno in sé, slegato da problematiche di altro tipo. Basterebbe quindi dire “il razzismo è odio ingiustificato” per vincerlo. Mentre invece bisogna criticarlo più profondamente.
Mi spiego. Ho imparato che il razzismo non è semplicemente “odio di razza” nei confronti di chi è diverso da me. Il razzismo non esiste in sé, isolatamente, ma all'interno di una società, in cui le divisioni e le discriminazioni sono molteplici: di etnia, ma anche di sesso, di classe, generazionali, culturali. Il razzismo interagisce inevitabilmente con queste divisioni, è incastonato nell'insieme delle gerarchie che organizzano la società e trae forza da esse.
Il caso della Kyenge lo illustra bene. In particolare nei mesi scorsi c'è stato un episodio particolarmente rivelatore di questo incastonamento sociale del razzismo. È il caso della polemica del politologo Giovanni Sartori che, in un articolo sul Corriere della Sera del 17 giugno, se la prendeva con la Kyenge in quanto “incompetente” sul tema dell'integrazione.
L'articolo di Sartori
Il politologo Giovanni Sartori
L'articolo è un insieme abbastanza delirante di considerazioni assemblate senza coerenza alcuna. Possiamo tuttavia individuare tre argomenti principali. Il primo è che la Kyenge, in quanto medico oculista, non è titolata a occuparsi di integrazione: cosa ne sa lei? La sola prova addotta dal politologo a supporto di questa sua opinione è che la ministra probabilmente non ha “letto il [suo] libro Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei, e anche un [suo] recente editoriale” sul Corriere. Il secondo argomento è che lo ius soli è storicamente adottato dai paesi sottopopolati (bisognosi di ripopolamento) e non da paesi del Vecchio Mondo (cosa non vera, vista la Francia), le cui condizioni economiche non lo permetterebbero. In effetti, l'Italia è, sempre secondo il professore, ormai satura, afflitta da una grande disoccupazione giovanile e gli immigrati non possono che peggiorare la situazione; al punto che Sartori lega come la causa all'effetto il fatto che il numero di imprenditori immigrati cresce, mentre gli italiani falliscono. Dato, però, non supportato da niente. Sarebbe quindi un errore della sinistra questa apertura “terzomondista” (il PD?!) nei confronti degli stranieri. Il terzo argomento è più sostanziale. Sartori afferma che l'Italia non è un paese meticcio e non può esserlo: solo i paesi sudamericani lo sono. Dice precisamente che la Kyenge dovrebbe comprarsi con i soldi che le passa lo Stato “un dizionarietto di italiano” per cercare la parola “meticcio”. Inoltre cita, senza giustificare il paragone con l'Italia di oggi, il caso dell'India che, durante il processo di decolonizzazione, ha vissuto una divisione tra indù e musulmani tale da dover fare una secessione e creare un nuovo stato, il Pakistan: questo sarebbe un esempio dell'ineluttabile disintegrazione che governa il mondo, frantumato com'è in blocchi di civiltà religiose che si scontrano (non dimentichiamo che Sartori frequenta da anni l'accademia americana, da cui proviene la tesi dello scontro di civiltà di Huntington, tesi storica e ideologica che ha fondato la politica estera delle presidenze Bush e la visione neo-conservatrice del mondo).
Questi argomenti sono, evidentemente, molto deboli e il tono di Sartori è molto polemico e poco incisivo. Insomma, l'articolo è scritto particolarmente male, anche peggio degli articoli che appaiono abitualmente su un giornale come il Corriere. La direzione del quotidiano deve essersene accorta, al punto da declassare il pezzo dalla colonna di sinistra, quella degli editoriali, alla colonna di destra, quella degli articoli di spalla. La cosa ha fatto inorridire Sartori, che ha minacciato di interrompere la sua ventennale collaborazione da editorialista. L'articolo ha avuto ovviamente un po' di risonanza e in tanti, per esempio sul Fatto quotidiano, hanno notato alcuni degli elementi più palesemente contraddittori delle tesi di Sartori. Eppure, queste riscuotono tutto sommato successo presso i lettori, come dimostrano i commenti a quest'altro articolo del Fatto.
Nessuno ha notato però l'insieme delle egemonie che quest'articolo promuove, né ha spiegato come il razzismo sia necessario al mantenimento dell'attuale ordine sociale (molto poco democratico).
Il razzismo e l'ordine socio-economico.
La tesi centrale, per la quale la sinistra terzomondista avrebbe aperto le porte agli stranieri, causa del declino economico degli italiani, è generalmente accettata e serve da una parte a non interrogarsi sulle reali cause della crisi economica, dall'altra a costituire “un'identità italiana” fittizia da opporre allo “straniero”. L'etnicizzazione dei conflitti sociali ed economici in tempo di crisi rinforza così la condizione attuale d'esistenza della comunità nazionale e garantisce il mantenimento dell'ordine sociale: nessuno si solleva contro chi ha causato la crisi continuando ad arricchirsi perché si individua un altro nemico, l'immigrato. Insomma, noi italiani contro loro stranieri: questa divisione permette di non affrontare il fondo della crisi e di costituire una segmentazione sociale che va a danno dell'elemento debole, l'immigrato, garantendo a chi ha il potere di conservarlo.
È una vecchia tesi che riesce a riciclarsi attraverso i decenni. Poco importa se in realtà l'Italia non ha mai aperto le sue porte agli stranieri (basti guardare la repressivissima legge Bossi-Fini e i suoi effetti). Poco importa anche che i giovani italiani abbiano già cominciato a fare lavori dequalificanti e sottopagati, cosa che Sartori sembra invece paventare soltanto per il futuro, segno che non conosce un tubo della realtà italiana contemporanea.
Il razzismo e la democrazia
Un'altra importante dominazione che Sartori alimenta con il suo articolo è di tipo politico. Il principale, e in fondo l'unico, rimprovero che il professore fa alla Kyenge è di non essere titolata ad occuparsi di integrazione. E questo è un argomento estremamente interessante. L'idea di base è che, per fare politica ed essere ministri, si debba essere competenti e titolati: cioè sei politico solo se sei politologo, sei ministro dell'economia solo se sei economista, sei ministro della sanità solo se sei medico. Per questo la Kyenge, oculista, sarebbe inadatta al dicastero dell'integrazione. Questa idea è purtroppo fondante della visione odierna della politica, vista come semplice amministrazione della cosa pubblica: per governare bene basta saper fare le cose, essere dei buoni tecnici, onesti ed efficaci. Si tratta di una visione meritocratica della politica, fatta su curriculum: depoliticizzazione della politica. Ed è questa d'altra parte la visione che assicurava al governo Monti il suo consenso iniziale ed è lo stesso tipo di discorso portato avanti dal Movimento Cinque Stelle. Come se ci fosse una sola maniera di fare le cose e di gestire la cosa pubblica; come se gli interessi in gioco fossero sempre unici per tutti; come se la politica fosse svuotata del suo compito principale: scegliere, scegliere quale tipo di società e di economia costruire. Un tecnico esegue, un politico sceglie.
Questo è evidentemente un problema non solo di razzismo nei confronti della Kyenge, ma di visione della democrazia. Il fondamento della democrazia è ben altro: che un contadino, un operaio, un lavoratore delle pulizie o del call-center diventino parlamentari e ministri. La democrazia non è meritocratica, ma si basa sull'idea che esistono uno spazio pubblico e una società civile sede di dibattiti e di lotte dalle quali scaturisce il governo della cosa pubblica. Così, la legittimità della Kyenge ad essere ministro dell'integrazione non deriva dal suo titolo di studio, ma dal fatto che da anni conduce una battaglia politica sul tema dello ius soli, battaglia che ha ragion d'essere nella società contemporanea. È in quanto militante politica e non in quanto oculista che Kyenge è diventata ministra.
È d'altra parte per questa stessa ragione che nessuno ha mai chiesto ad alcun ministro di mostrare la propria laurea prima di poter accettare il dicastero. Strano che l'idea venga a Sartori proprio per un ministro nero e donna.
Il razzismo e il sessismo
La presidente della Camera Laura Boldrini
Nero e donna. Sì, perché la pulsione più forte del razzismo contro la Kyenge è di tipo maschile e maschilista. L'odio contro la ministra è un odio contro la donna. Il discorso di Sartori non è solo quello di un italiano bianco nei confronti di un italiano nero, ma anche e soprattutto quello di un uomo nei confronti di una donna. La donna non deve far politica (certo, il Pdl è pieno di donne, ma è tutta un'altra cosa...). Nel clima generale della politica italiana questa è una convinzione abbastanza confessata che governa il disprezzo reiterato nei confronti dei politici donna. La Kyenge non è d'altra parte l'unica donna politica italiana ad aver ricevuto minacce ed aggressioni. Anche la Boldrini, presidente della Camera, ex-portavoce dell'Alto Commissariato ONU per i diritti dei rifugiati e favorevole allo ius soli, è stata attaccata e, anche lì, le offese si caratterizzano per una commistione di razzismo e sessismo, sul tipo “portateli nel letto i tuoi negri e fatti sgozzare”. Gli attacchi alla Kyenge e alla Boldrini a sfondo razzista e sessista svalorizzano e delegittimano la loro presenza in politica e questi attacchi provengono principalmente da voci maschie: servono a perpetrare il carattere maschile della politica, alla quale la donna non dovrebbe avere accesso.
Il razzismo e le classi sociali
Inoltre è importante riflettere al razzismo in Italia in legame alle classe sociali. L'odio razziale di Sartori ha infatti un altro fattore: la classe. Il suo è soprattutto un classismo. Nell'immaginario di Sartori l'arabo o il pachistano ben vestito, in giacca e cravatta e con una bella macchina, che fa un buon lavoro, non è un problema. Sartori se la prende con la Kyenge quando questa afferma che sono numerosi gli imprenditori di origine straniera: ma “imprenditore è una parola elastica”, dice Sartori, “metti su un negozietto da quattro soldi e sei un imprenditore”.
L'immigrato, in quanto commerciante troppo modesto o operaio, contadino, muratore, non è un vero imprenditore né un lavoratore come gli altri. L'idea che Sartori ha del lavoro è evidentemente più capitalista, privilegia la ricchezza e non sopporta tutto ciò che mostra povertà. È la povertà che molti italiani, dopo averla collettivamente rimossa con il boom economico, vogliono rimuovere dal proprio orizzonte di vita. È la povertà promossa dalle rappresentazioni che si fanno dell'immigrato che dà fastidio. L'odio di Sartori per gli immigrati è quello di un ricco nei confronti di un povero.
Il razzismo e la cultura istituzionale
Quel che sembra rodere maggiormente al vecchio Sartori è il fatto che la Kyenge non abbia (a suo avviso) letto il suo libro, che conteneva delle proposte sull'integrazione degli immigrati in Italia. Sartori dà così per scontato che se la Kyenge non si è filata le sue proposte è perché non le conosce – e non perché evidentemente non valgono una ceppa. Questo sottintende che, da una parte, la Kyenge non avrebbe nessuna capacità di giudizio e, dall'altra, che nessuno resisterebbe alla genialità delle idee dell'emerito prof. Ecco perché Sartori se la prende anche con la mala fede degli altri che, pur se più intelligenti della ministra, non gli hanno mai dato ascolto. “Il buon senso non fa notizia”, dice.
Questo fatto è rivelatore del cattivissimo rapporto che gli intellettuali e, in particolare, gli accademici italiani hanno con la società civile e la politica. Per i presuntuosi professoroni non si tratta di partecipare al dibattito pubblico apportando una visione arricchita dalle proprie ricerche, ma di insegnare ai poveri ignoranti, politici e giornalisti (il resto del mondo è difficilmente preso in considerazione), come dovrebbero andare le cose in un mondo normale. Questa presunzione e questo elitismo professorale è riprodotto nell'accademia italiana, in cui i professori sono depositari di un sapere vero che lo studente non può che riprodurre, tentando di imitarlo senza potervi riuscire. Chi esce dai ranghi non ha diritto di cittadinanza. Ma difficilmente il sapere prodotto sarà, nel passaggio da una generazione all'altra, rimesso in discussione, quindi innovativo.
L'aura di Sartori deve essere una delle ragioni per cui la direzione del Corriere ha deciso di declassare, senza rinviarlo all'autore, il pezzo. Bisognerebbe però sentirsi liberi di dirgli che ha scritto un po' di cazzate. Nessuno è perfetto.
Così, il problema del razzismo nell'articolo di Sartori è anche un problema di democrazia del sapere e della cultura: non basta essere un'istituzione culturale, maschi e bianchi per dire cose intelligenti.
Il razzismo e la gerontocrazia
Nessuno è perfetto. Soprattutto a novant'anni. Eh sì, perché Sartori è del 1924. Siamo sicuri che sia tra gli intellettuali più adatti ad occuparsi di un fenomeno così recente, come quello dell'immigrazione in Italia e del dibattito sullo ius soli? Perché non dare spazio, soprattutto sulle pagine dei grandi giornali, a dei pensatori più giovani, che vivono nel mondo di oggi, che lo capiscono e sanno interpretarlo? Perché non liberarsi dei vecchi che, per quanto rispettabili, hanno forse esaurito le cose da dire alla nostra società?
Ma questo problema è più ampio e tocca anche la proprietà dei giornali e dei media, nelle mani di gruppi poco interessati a fare davvero informazione e dibattito.
Lo storico neo-cons Samuel Huntington
Il razzismo e l'identità
Questo è un grande malinteso del dibattito sullo ius soli. Le rappresentazioni di questa problematica veicolano infatti l'idea che sia in gioco l'identità dell'Italia e degli italiani, basandosi sulla teoria dello scontro di civiltà (che abbiamo evocato prima): questa concezione dell'identità non ha infatti senso che all'interno di una più vasta civiltà o cultura che bisognerebbe preservare. Invece lo ius soli e lo ius sanguinis sono norme giuridiche e riguardano non l'identità delle persone e dei gruppi, ché quella non si definisce per decreto, bensì le condizioni pratiche di vita delle persone. Lo ius soli serve semplicemente a permettere a chi è nato e cresciuto in Italia di restarci senza dover fare un'infinita tiritera dal diciottesimo anno di vita in poi, quando diventa “immigrato” (mentre fino al giorno prima era italiano) e il suo statuto comincia ad essere regolato dalla Bossi-Fini, legge che cambia la vita, in peggio.

Ecco qualche riflessione sul perché il dibattito sullo ius soli e la lotta contro il razzismo della Kyenge è legato ad altre questioni e riguarda tutti. Il razzismo, purtroppo, non è solo. Liberarsi dal razzismo significa liberarsi da tante altre dominazioni e discriminazioni. Il razzismo è la punta dell'ice-berg. Battersi contro di esso è battersi su più fronti. Ma quale strategia?